Aggiunte alla storia di Incino

 

Aggiornamenti

Per poter comprendere i fatti avvenuti a Incino nel 1816 bisogna fare una piccola premessa di carattere generale.

1815 tutti i libri di storia attribuiscono al Congresso di Vienna il fatto più importante dell’anno, questo vertice che stabilizzò l’Europa dopo la fine dell’era napoleonica merita il primo posto solo perché un fatto avvenuto in Asia passò quasi inosservato nel resto del mondo, ma che nel biennio successivo provocò grandi sconvolgimenti.

Verso il tramonto dell’11 aprile un vulcano dello stato delle Isole Olandesi, oggi Indonesia, chiamato Tambora, esplose letteralmente con potenti boati, (si pensa che il boato dell’eruzione costituisca il più forte suono mai udito dall’uomo), in cinque giorni di eruzione vennero proiettati in aria almeno 300 miliardi di metri cubi di cenere, roccia e altri materiali. Lo stesso vulcano che prima dell’eruzione misurava oltre 4100 metri di altezza, vide una diminuzione di quota di 1300 metri, scendendo agli attuali 2850 m. Un disastro: i morti causati direttamente furono oltre 10.000 ma altri 80.000 sarebbero state vittima nelle settimane successive all’esplosione. Il cielo fu oscurato per diversi giorni in tutta la regione. Tale disastro rimase circoscritto alla regione non essendoci a quel tempo mezzi di trasporto veloci capaci di portare la notizia in tutto il mondo, a New York si venne a sapere qualcosa solo verso ottobre mentre a Londra la notizia cominciò a circolare a Natale. Così la notizia, frammentaria, passò quasi inosservata. Intanto le polveri lanciate in aria dal vulcano raggiunsero la stratosfera dove, trasportate dalle correnti d’aria, si sparsero su tutto il pianeta impedendo a buona parte della radiazione solare di raggiungere il suolo. La temperatura globale si abbassò dappertutto poiché la luce solare faticava ad attraversare l’atmosfera. Gli sconvolgimenti climatici e iniziarono nella primavera del 1816 sia nel Nord America, Canada e nel nord dell’Europa, rapide e improvvise variazioni di temperatura divennero comuni , si vede la neve d’estate, già in maggio il ghiaccio distrusse gran parte dei raccolti tranne gli ortaggi poco sensibili al freddo. La popolazione ovunque fu colpita da una grande miseria, l’agricoltura fu ridotta in grande difficoltà, in Europa ci furono rivolte per il cibo in Gran Bretagna e in Francia dove tanti magazzini vennero saccheggiati. In Svizzera il governo fu costretto a dichiarare un’emergenza nazionale, ma tutto il continente europeo fu colpito da piogge anomale, grandi tempeste e esondazioni dei maggiori fiumi. Le polveri del Tambora rimasero per molti anni nell’atmosfera diminuendo la quantità di radiazione solare che normalmente colpisce il suolo terrestre. Il pianeta conobbe un biennio di estati mancate ed inverni freddissimi con conseguenza di raccolti scarsissimi e un impoverimento generale di grandi aree del mondo. Per tutto questo il 1816 fu ricordato come l’anno senza estate.

Questo è il quadro generale, anche nelle nostre zone la mancata estate dell’anno 1816 portò una grande carestia, che colpì tutto il Feltrino. Per risollevare l’economia stremata, l’Austria intervenne con molti aiuti, consentì la coltivazione del tabacco, fino allora vietatissima, e avviò molte opere pubbliche la più importante fu il rettilineo della Culliada. Ma la fame decimò letteralmente la popolazione, ecco un prospetto:

comune     anno nascite    decessi    matrimoni

Arsiè        1815     55             44            11

                1816     63             65              6

                   1817    41             88             16

                1818     65             53               5

Seren       1815     46             63               9

                 1816     70            54              17

                    1817     51           118             12

                 1818     71            47              12

Cismon     1815      37            20              12

                 1816      38            38                4

                    1817     18           106               7

                 1818      40            16               14

ovunque si nota il picco di morti del 1817, quasi tutte registrate sotto la voce “inedia”, mentre le morti crollano l’anno successivo.

Ecco cosa successe a Incino, il tutto estratto da:

PIERO BRUNELLO

RIBELLI, QUESTANTI E BANDITI proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866

Marsilio editori Padova 1981 pag 156–162

Quelli di Incino.

Di andare a requisire grano e farina se ne parlava fin dai primi di maggio del 1817. Alla mietitura mancavano due mesi circa,il raccolto del granoturco era lontano, la carestia durava ormai da tre anni. Un giovane di Incino sceso fino a Bassano per fare un pegno, non sappiamo se da un usuraio o al Monte di Pietà,lo aveva fatto sapere a uno della Rocca che faceva la stessa strada in cerca anche lui di un prestito. Giuseppe Grando di Incino rivelò appunto a Gregorio Bellaver che il piano d’azione era pronto. Non disse chi avrebbe chi avrebbe dato il via, ma di certo c’era a Incino “ un individuo destinato ad avvertire, e riunire gli altri per requisir farina e grano” , chi fosse quell’individuo non si sapeva o non si poteva dire, ed era proprio il segreto a conferire al piano quell’aria di mistero e di minaccia insieme. La conoscenza dei luoghi aiuta a spiegare i fatti. Incino è un minuscolo gruppo di case arroccate sulla cresta di un’altura di 400 metri circa. Una strada che parte da Cismon nella Val Sugana si inerpica fino al paese, per scendere poi alla Roccca e giù fino ad Arsiè nel distretto di Fonzaso. Dall’alto di Incino si scorge il torrente Cismon correre incassato in una gola verso la Val Sugana. Tutto attorno al paese solo le terrazze sostenute da muretti a secco consentono la coltivazione di uva, fagioli, granoturco e patate. Le linee delle terrazze sono visibili ancora oggi, malgrado il bosco continui ad avanzare rubando terreno alle viti. Per trovare un’estensione, se pur modesta, di prati e pascoli bisogna scendere fino alla Rocca, o meglio bisognava scendere, perché un lago artificiale costruito con arroganza e spregiudicatezza dalla SADE una trentina di anni fa ha sommerso con il vecchio paese della Rocca anche il terreno circostante. Non si deve immaginare che la Rocca fosse un fertile terreno di pianura, era anch’esso un borgo stretto tra i monti, tuttavia proprio in quel punto la valle si allargava e diventava un tratto pianeggiante, il che conferiva al paese un grande vantaggio nei confronti di Incino. Per il fatto di essere posti sulla medesima vallata, potrebbe sembrare che i rapporti tra Rocca e Incino fossero molto stretti. Contrariamente alle apparenze invece, Incino gravitava verso la sottostante Val Sugana, e cioè spiega la contrarietà dei suoi abitanti nei confronti di Rocca, dalla quale dipendevano dal punto di vista amministrativo, contrarietà che ha dato luogo a una vecchia ruggine di cui è rimasto ancor oggi il ricordo. Caso significativo è il “pericolo” che correvano quanti di Incino volevano sposare una ragazza della Rocca, o viceversa; mentre era frequente il matrimonio di giovani di Incino e Cismon. Se si va a chiedere nell’unica osteria di Incino il perché dell’affinità con quelli di Cismon ci si sente rispondere che entrambi sono “ teste calde” e” rivoluzionari” e per avvalorare tale giudizio ricordano come nel primo dopoguerra a Cismon istituirono una repubblica indipendente che batteva moneta per proprio conto. Il fatto che l’attruppamento abbia avuto luogo il lunedì 19 maggio fa supporre che il progetto sia stato discusso nei consueti incontri domenicali dopo messa o all’osteria. Anche quel lunedì era giorno festivo. Alla Rocca che era sede municipale, ci sarebbe stata una processione religiosa, e probabilmente molti sarebbero scesi fin là dalle contrade di Incino, dei Berti e del Corlo.Verso le sei del mattino di quel lunedì 19 maggio, una decina di uomini di Incino scesero fino alla casa di Gervasio Arboit, deputato comunale della Rocca. La moglie dell’Arboit, Angela, si trovava a governare il bestiame nella stalla, era sola in casa, e il marito a quell’ora stava già lavorando nei campi. Per intuire lo scopo della visita, sarebbe bastato far caso al sacco vuoto che ciascuno degli uomini portava sulle spalle, ma la donna chiese ugualmente perche fossero venuti a casa sua. Stavano cercando il deputato comunale, risposero, e volevano del sorgo. Non ce n’era di sorgo in casa, ribattè Angela Arboit. E gli altri: non ha importanza, “ il deputato verrà con noi e ce lo ritroverà” . Cosa abbiano fatto subito dopo quei dieci, dodici uomini di Incino non si sa, e nemmeno il cancelliere del censo di Fonzaso, Mengotti si preoccuperà di chiederlo nel corso degli interrogatori. Probabilmente tornarono ad Incino a raccogliere gente. Tra i due paesi c’è meno di un’ora di strada a piedi,e in questo caso i conti tornerebbero, è certo infatti che poco dopo le otto si presentarono in piazza della Rocca dalle sessanta alle ottanta persone, per la quasi totalità di Incino. Il parroco don Giuseppe Leonardi che se ne stava in canonica chiacchierando con il consigliere comunale Giacomo Grando in attesa dell’ora della messa, li vide arrivare in piazza, dopo un primo momento di perplessità, Giacomo Grando intuì il loro atteggiamento che non erano venuti per la processione ma “che si fossero sollevati per la fame” . Vi erano famiglie intere con il padre la madre e i figli, e qualcuno era munito di un grosso bastone. Il fatto che tutti i testimoni ricordino unanimi il particolare del bastone lascia supporre che il fatto provocò una certa apprensione. Ma il parroco spiegherà nel corso della deposizione che il bastone serviva loro “ per sostenersi nello stato proprio del languore” .Don Leonardi e il consigliere comunale uscirono sulla piazza. In mezzo a un grande vociare tutti si fecero attorno ai due. Una voce confusa di molti- dichiarò poi il parroco – rispose che volevano andare in cerca di aiuto, e soccorso. Il parroco cercò di fargli desistere dalle loro intenzioni, ammonendoli che stavano compiendo un grave delitto e che si sarebbero esposti all’” atrocità della pena “ prevista dalla legge. Non avevano più niente da temere ormai, gli fu risposto, perché tanto valeva morir d’una morte, come di un’altra, che il parroco e il consigliere comunale continuassero pure nelle loro prediche, essi volevan andare a prendersele dove ve n’era – il parroco stava per mandare a chiamare il deputato comunale, in fin dei conti era affar suo risolvere la cosa, quando Gervasio Arboit arrivò in piazza di propria iniziativa avendo saputo dalla moglie che i sollevati volevano suonare le campane a stormo. Nuovi tentativi di fargli desistere: lusinghe, buone intenzioni, promesse. Niente da fare, i sollevati non volevano andarsene. Solo qualche momentanea sussistenza, spiegherà il parroco, avrebbe potuto sedarli. Mentre don Leonardi restò in piazza, Gervasio Arboit e il consigliere Giacomo Grando si recarono a cercare farina di granoturco e formaggio presso le, famiglie migliori di Rocca e di Arsiè. L’attesa del loro ritorno era lunga per chi aveva fame. Mentre si aspettava il soccorso, raccontò il parroco, certo Antonio Zancanaro di Francesco, 32 anni, villico, sposato con tre figli, cadde boccone sul suolo per languidezza. In un attimo si sparse la voce, era svenuto un giovane di Incino, così non poteva continuare. Come spesso succede in casi analoghi un fatto imprevisto può mutare a un tratto il comportamento di una folla. Un fratello dello svenuto, Agostino, poco più che ventenne, corse verso il campanile gridando “ campana a martello, altrimenti qui periamo uno alla volta”.Alcuni lo seguirono tentando di entrare nel campanile, ma non vi riuscirono perché poco prima il parroco lo aveva fatto chiudere per precauzione. Al suono della campana a martello la folla sarebbe aumentata e avrebbe magari mutato atteggiamento. Consapevole del pericolo, impadronendosi del campanile aveva un chiaro significato simbolico, il parroco della Rocca intervenne personalmente per impedirlo: ma io mi vi opposi, dichiarò al cancelliere Mengotti, con tutta la forza della ragione, e della persuasione, e ebbi la sorte di divergere il loro attentato. Dopo aver fatto rinvenire il giovane svenuto, don Leonardi fece entrare tutti in chiesa per assistere alla messa. In chiesa un altro degli “ attruppati svenne per inedia, un certo Giacomo Grando che il parroco definì” ladro, disturbatore della quiete pubblica e miserabilissimo”, e che altri definirono “questuante”. Forse perché si era in chiesa, o più probabilmente perché si trattava di un mendicante, questo fatto non provocò una reazione simile a quella avvenuta poco prima in piazza. Usciti tutti di chiesa al termine della messa, il deputato e il consigliere di ritorno dalla questua fecero cucinare la polenta. Nell’attesa un altro cadde svenuto, ma era ormai questione di poco tempo, e la polenta fu servita a tutti, non è chiaro se nella piazza o dentro la chiesa. Bastò che si spargesse la voce che alla Rocca c’era da mangiare, e subito accorsero famiglie dalle contrade di Incino, del Corlo e dei Berti. In piazza si affollarono verso mezzogiorno dalle centoventi alle conto cinquanta persone, i testimoni furono d’accordo nel riferire che una metà era composta da donne e di bambini. Molti, una buona metà dei presenti, vennero in piazza solo quando seppero che c’era da mangiare. Si sa che un villico di Incino, Antonio Zancanaro, che doveva scendere in pianura quel giorno stesso in cerca di lavoro e che la fame rendeva talmente debole da impedirgli di affrontare il viaggio, saputo che si faceva la polenta alla Rocca vi scese verso mezzogiorno e solo il giorno successivo si mise in cammino. Altri erano in quel momento di passaggio per la Rocca e si fermarono giusto il tempo di mangiare la loro parte, come un certo Giovanni Maria Fantin del Corlo egli giunse, raccontò il parroco un’ora dopo gli altri, con fagotto sulle spalle e diretto verso Longarone per colà vivere coll’arte del carboniere, giunto in piazza, ed infirmato, che si faceva la polenta, si fermò per mangiarla, indi proseguì nel suo cammino.

Nei giorni seguenti il cancelliere del censo di Fonzaso procedette agli interrogatori di dieci uomini tratti in arresto, nove dei quali erano di Incino. Vennero inoltre ascoltati in qualità di testi il deputato comunale Gervasio Arboit, sua moglie Angela, il consigliere comunale Giacomo Grando e il parroco don Leonardi. I testimoni furono concordi nell’attribuire il tumulto alla fame, ed esclusero qualsiasi altro motivo. Al Mengotti premeva appurare “ se i sollevati nutrissero qualche intenzione in odio al governo “, ma le risposte furono tutte negative. Il deputato Arboit, richiesto” se gli attruppati avessero in mira altro oggetto fuori di quello di mettere a contribuzione i possidenti”, rispose: non altra mira che quella di provvedere alla loro fame. Tra i sollevati v’erano anzi molti individui smunti, e cadaverici, che dimostravano la vera necessità, e la vera fame. Il parroco don Leonardi fornì un quadro impressionante della miseria di quell’anno di carestia: non avevano in mira, che di vivere in qualche modo meschinamente, e di non morire ne’ loro tuguri. Molti in fatto sono già morti per questa causa, e molti più ancora sono prossimi a morire. Io ho somministrato loro anche oggi gli ultimi uffici della Religione, e sono nella dolorosa sicurezza di dover fare ogni giorno lo stesso, se non giunge una speciale provvidenza. In caso diverso io pronostico, e non mi inganno certamente, che la metà della popolazione ( di Incino) dovrà per questa causa soccombere.

Gli imputati tratti in arresto erano tutti uomini, “ villici” di professione ed “ illetterati “, che non sapevano fare nemmeno la propria firma. Due erano diciottenni, uno quarantenne gli altri avevano tra i 23 e i 32 anni. Tutti si difesero dichiarando che non vi era stata premeditazione, che tutto era avvenuto all’improvviso, e che loro personalmente si erano recati in piazza richiamati dalla gente che c’era. Uno era capitato a mezzogiorno sentendo parlare della distribuzione di polenta, un altro passava per la Rocca di ritorno dal farmacista di Arsiè dove era stato ad acquistare medicinali per il padre, un altro ancora aveva visto passare la folla per strada mentre era al lavoro nei campi. Se avevano partecipato all’attruppamento lo avevano fatto per l’unico oggetto di ottenere qualche soccorso per vivere. Alvise Nardino di 24 anni di Incino dichiarò: in questo attruppamento vi entravano molte donne e fanciulli, ed era una cosa assai commovente il vedere che molti per inedia cadevano sul suolo, è prova che l’unione era mossa dalla fame, il riflesso che appena ci fu distribuita un pò di polenta e farina ritornammo tutti alle nostre case arrendendoci alle insinuazione della Deputazione comunale e del parroco locale.

Nessuno degli imputati seppe indicare chi fossero stati i promotori, sui quali il Mengotti avrebbe voluto aveva notizie più precise. Più facile fu sapere il nome di molti partecipanti, grazie soprattutto alle indicazioni fornite inizialmente dai testimoni i quali dimostrarono una grande conoscenza degli abitanti dei borghi, delle loro famiglie e dei gradi di parentela. Alla fine degli interrogatori Mengotti potè individuare una settantina di partecipanti, quelli cioè che per primi scesero alla Rocca. A ognuno fu chiesto- se sappia che tra gli ammutinati vi sia stato qualcuno che abbia minacciato di suonare le campane a stormo”. Gli imputati negarono decisamente-Ammetterlo significava infatti che qualcuno voleva dare il via a un tumulto per requisire grano e farina presso i possidenti. Unico tra tutti intimorito forse dai toni dell’interrogatorio, Alvise Nardino di 24 anni confessò di aver avuto l’intenzione assieme ai due giovani Zancanaro il cui fratello era svenuto per la fame, ma subito dopo attenuò il significato di tale proposito: Alcuni manifestarono questa intenzione colla vista soltanto di unire la gente, e di provvedere al loro bisogno, e fra questi io stesso, Agostino Zancanaro e Bortolo di lui fratello. Io stesso li ho sentiti a gridare di suonare ciocchè non ebbe poi luogo, mentre era stato chiuso il campanile.

Gli arrestati per i fatti avvenuti alla Rocca furono sedici, tutti uomini. A un mese circa dal loro arresto, il tribunale di Belluno, prese in esame il delitto di sollevazione di cui erano imputati. Fu deciso che non si dovevano punire coloro che solo formarono parte del seguito attruppamento, ma solo quanti palesarono il maggiore accanimento e prima di tutti quelli che eransi persino proposti di far suonare a stormo. Fu inoltre deciso che invece di sottoporli a un processo, sarebbe bastato infliggere loro una misura di polizia. Vennero così tradotti nel carcere della Giudecca a Venezia sette abitanti di Incino, i quali scontarono una detenzione di tre mesi.( per un’altra fonte 4 mesi )

Si deve aggiungere infine che oltre alla misura repressiva, il cancelliere di Fonzaso provvide nei giorni immediatamente seguenti il 19 maggio a inviare qualche soccorso al comune della Rocca. Egli fece pervenire 300 lire e 24 sacchi di lenticchie e fave da distribuire ai più miserabili di Incino. Lo stesso fece il delegato di Belluno, il quale inviò 550 lire.

—————————————————————————————————————–

La notizia sotto riportata probabilmente non dovrebbe riguardare Incino ma la si riporta perché è il più vecchio documento che lo scrivente è riuscito a trovare riguardo al nome Zancanaro.

Religione nelle campagne

Mariaclara Rossi

Talvolta sono i fedeli a inventarsi per necessità il ruolo di ministri del culto, a dirigere le cerimonie e a pronunciare alcune preghiere al posto del parroco assente. Nel 1357 Giorgio de Tortis da Pavia, vicario del vescovo di Treviso, apre un’inchiesta contro prete Giovanni, pievano di Santa Maria di Riese. Il sacerdote era stato accusato da un suo parrocchiano, Pietro Zancanaro (in precedenza era stato massaro di San Matteo, una delle chiese esistenti nella parrocchia) perché in prossimità della festa di Ognissanti si era rifiutato di andare a casa sua per visitare, confessare e dare l’eucarestia e l’estrema unzione alla moglie Margherita gravemente malata. Nuovamente chiamato a dare cristiana sepoltura a Margherita, aveva prima chiesto denaro e, una volta ottenutolo, si era ugualmente rifiutato di seppellirla. La defunta era stata accompagnata al cimitero e sepolta dagli abitanti del villaggio in assenza del prete (et sic sepulta fuit per nomines dicte ville nullo presbitero presente). Il parroco era stato denunciato dai suoi fedeli per non aver adempiuto ai suoi obblighi e per aver messo in pericolo la propria anima. L’atto di accusa è suffragato dalla testimonianza di altri 7 abitanti del villaggio. Pag 110

———————————————————————————————————–

1942 il 4 bicembre Incino diventa curazia autonoma, recidendo ogni legame con Rocca. La decisione vescovile fu accolta con grande gioia e, se pur con i pesanti limiti imposti dalla guerra fu festeggiata con calore. Qui di seguito viene riportato integralmente il bollettino straordinario, e unico, redatto dal nostro conpaesano Don Siro Nardino

 La nuova curazia autonoma di Incino di Arsiè

numero unico 4 dicembre 1942-xx1

Messaggio del vescovo

AL BUON POPOLO DELLA CURAZIA DI INCINO CHE VUOLE SOLENNIZZARE CON PARTICOLARE ESULTANZA LA CONCESSIONE DELL’AUTONOMIA CONCESSA ALLA CURAZIA TANTO AMATA, IMPARTIAMO DI CUORE LA PASTORALE BENEDIZIONE, CON IL VOTO CHE ESSO SI STRINGA SEMPRE PIÙ AL SUO CURATO, CORRISPONDA ALLE ASPETTATIVE DEL CUORE DI GESÙ VIVENDO INTEGRALMENTE IN OGNI FAMIGLIA SECONDO I DETTAMI DEL SANTO VANGELO.

Padova festa di San Carlo 1942 +Carlo vescovo

 

Lettera del curato a tutti i fedeli di Incino

Ai miei diletti parrocchiani,

dopo un brevissimo tempo in cui voi ansiosi aspettavate, in un tormentoso dubbio, il vostro novello Curato, il Signore vi ha esauditi; ed ecomi da due mesi ormai con voi.Meritavate, o carissimi, che il Signore mi concedesse tanta grazia perché Voi, benché in numero assai esiguo, quasi trascurabile, in confronto anche alle più piccole parrocchie, voi vi sopraelevate per la vostra fede e per il vostro devoto amore al sacerdote di Dio.I due mesi passati ormai con Voi mi danno pienamente assicurato di questa affermazione.

Innanzi a tanta vostra gentile e devota accoglienza, che cosa vi dirò? Vi ringrazio e vi rinnovo il mio affettuoso e sacerdotale saluto che si estende a voi che mi siete presenti ed in specialissimo modo, ai soldati e immigranti.Noi formeremo una sola famiglia spirituale, in cui batte un solo cuore e vibra una sola anima cristiana. Il sacerdote che Sua eccellenza Monsignor Vescovo v’ha mandato sa di essere l’ultimo per doti intellettuali a quelli che lo precedettero, ma sente, come i suoi ottimi predecessori, tanto amore per le vostre famiglie e per le anime vostre. Per questo lavorerò, e mi sacrificherò.

E voi? Sono sicuro che mi corrisponderete, che mi seguirete come buoni figlioli, e nel vostro novello Curato autonomo vedrete il buon pastore, il rappresentante di Dio, che vive per il suo gregge.

Ed ora, miei cari parrocchiani, permettetemi che vi dica: facciamo festa, e gran festa.Oggi la nostra Curazia, per bontà di nostro eccellentissimo Vescovo, non fa più parte alla parrocchia di Rocca; oggi per il suo riconoscimento dell’autonomia, agli effetti ecclesiastici, possiamo considerarla una parrocchia.

Da questo momento Voi vedrete nel vostro curato, il vostro pastore, il vostro parroco: nella nostra Chiesa potranno compiersi tutte quelle funzioni che si compiono nelle chiese parrocchiali; poi, in una parola, potete chiamarvi parrocchiani di Incino.

Consoliamoci e mentre porgiamo il nostro vivissimo ringraziamento a Sua eccellenza Monsignor Vescovo per tanta bontà e passione, non dimentichiamo tutta quella serie di buoni e laceranti curati ed in particolare dell’ultimo, Don Ernesto Zuccato, che hanno tanto lavorato in questa curazia e hanno così luminosamente preparato questo giorno a voi di Incino.Questo umilissimo numero unico in cui, insieme alla preziosissima parola e pastorale benedizione di Sua eccellenza Monsignor Vescovo, vengono raccolte le principali memorie della nostra curazia, dettate dal nostro carissimo conterraneo, Don Siro Nardino, rimanga a perenne ricordo della nostra fede e dell’opera che voi di Incino avete compiuto a gloria di Dio e a vostro merito.

Il vostro affezionatissimo

Don Carlo Marini cur. autonomo.

Incino nei ricordi di Don Siro

Ricordi….. Memorie

mi sembra ieri, eppure sono passati 46 anni da quel giorno, quando il parroco di Rocca Don Luigi Mocellin , don Marco di Mellame, e il cappellano di Rocca, salivano, un po’ ansanti, per la strada mulattiera della fontana, allora non c’era ancora la strada carrozzabile militare, per recarsi nel piccolo gruppo di case di Incino dove si attendeva per la posa della prima pietra sacra della nuova chiesa. Che festa! Che gioia semplice e commovente!

Non grandi apparati, non ricevimenti di autorità, non sfarzose cerimonie, ma tutto semplice e umile. Uno scavo nel piccolo tratto prospiciente il capitello della Madonna del Pedancino, un grande ammasso di pietre che si estendeva e si allargava a tutta quella parte che sovrastava il prato e la strada Burrion, una corona di buoni montanari che attendevano, nella loro curiosità commossa, la grande cerimonia. E Don Luigi, delegato del cardinale Callegari, vescovo di Padova, bene disse questa prima pietra tolta dal Col di Menat oltre 20 anni prima era stata posta per la costruzione di una chiesa. Ricordo di essere stato presente e tanto presente, perché, bambino di circa cinque anni, curioso come tutti i bambini, feci forza e piccola breccia tra quella folla tanto che mi trovai lì vicino, vicino alla stessa pietra sacra, e piccolo pulcino sotto quasi il mantello di Don Marco Ceccon che si compiaceva di farmi una carezza e di dirmi quasi in tocco profetico: “quando sarà il prete anche tu, allora non si era rimessa nella bella chiesa che si farà” queste parole rimasero come segmenti sepolti, e solo più tardi, quando la profezia fu una realtà, mi sovvenne che mi riapparve tutta la bella e grande cerimonia a cui viene negato questo importante ricordo della mia vita.

Il lavoro- la chiesa

Benedetta è sotterrata la pietra, l’architetto e progettista Nardino Francesco Menegai, e capomastro e direttore dei lavori Nardino Antonio detto Santo, la buona popolazione di Incino si mise tosto al lavoro, e qui notiamo l’entusiasmo e il sacrificio che ha dello straordinario. Gli uomini, parte si prestavano e a preparare le grosse pietre, vero marmo bianco-rigato, tutto estratto con mine dalla casa di Zancanaro Domenico Ampollina, e di Nardino Pietro dei Conchi; parte salirono su per la Mora e le altre montagne per condurre i grossi travi; parte, e con gli uomini e le donne e i fanciulli, provvedevano sabbia greggia e sabbia raffinata dal Cismon.

Non vi erano carri né mezzi di trasporto tanto che tutto, al suono della piccola campanella donata dal parroco Don Mocellin alla buona popolazione di Incino perché servisse a richiamare il popolo quando veniva a farle visita, tutti noi fanciulli correvamo col nostro tradizionale sacchetto e vi scendevamo in frotte su su fino al fondo del Cismon, e carichi di sabbia, salivamo contorti per la difficile mulattiera. Tutta la buona popolazione era mobilitata affinché il materiale di costruzione non mancasse mai agli operai, e in questo entusiasmo di cooperazione e lavoro, non possiamo dimenticare la robusta voce del baffuto “Checo Telta” che di buon mattino gridava: su su, a piovego..

Con questo entusiasmo e concordia di lavori continuarono per circa sei anni durante i quali tutti si prestarono e generosamente. Nella stagione invernale gli emigranti, ritornati dall’estero, preparavano materiale, e nella stagione in cui si poteva continuare il lavoro di muratura, allora erano le donne, le giovani, i fanciulli, e i pochi uomini e vecchi che si prestavano a provvedere il materiale, sabbia, acqua, calze, ai tre muratori lasciati per continuare il lavoro e retribuiti dagli stessi emigranti.

Il 13 dicembre 1902, festa di Santa Lucia, la chiesa era al termine, e di Incino salutava la sua chiesa, che prima di tutto, senza intonaco, senza soffitto, senza porte stabili, ma solo provvisorie, con un altare improvvisato di mattoni e privo di pietra sacra, appariva sommamente bella agli occhi degli buoni Incinesi che non sapevano contenere il loro giubilo e pareva loro un sogno di poter dire: “abbiamo anche noi la nostra Chiesa”. Non sono stanchi i buoni fedeli e pensando che per l’inaugurazione e benedizione necessitava di fare altri sacrifici, altre spese, eccoli all’opera e nel 1903 il coro venne soffittato ed intonacato, si provvede a un altare di pietra a mezzo dello scalpellino Zanchetta di Piove, sicché il 21 novembre 1903, giorno della Madonna della Salute, sotto il cui patrocinio Incino aveva dato principio al colossale lavoro, venne benedetta la chiesa, si celebrò la prima santa messa dal reverendo parroco Don Luigi Mocellin, assistito dal suo cappellano e dall’arciprete di Arsiè Don Valentino Ballasso.

Descrivere quel giorno, per Incino il più memorando e solenne, non sarebbe sufficiente la mia povera penna, ma quella bensì di un poeta, o meglio ancora quella del cuore di tutti i nostri Incinesi che prepararono col più grandi sacrifici quel monumento di fede cristiana, e vissero e videro, con le lacrime della più sentita esultanza, quel giorno. Centinaia di mortaretti facevano echeggiare monti e valli di assordanti e fortissimi colpi, i quali portarono una nota allegra nelle contrade le più lontane. Fuochi artificiali e naturali riempirono le tenebre della notte. Il paesello aveva assunto un aspetto mai veduto; un movimento che veniva da una continua folla di circonvicini montanari che rimanevano ammirati, commossi per questa gente di Incino che, con tanti sacrifici era riuscita a condurre a termine un grande progetto che purtroppo i pessimisti, che mai mancano in ogni tempo, avevano canzonato e deriso.

I primi sacerdoti

per quasi un anno si cominciò a celebrare la Santa Messa alla domenica con sacerdoti, ora di Rocca, di Arsiè, di Cismon, e di altre parrocchie: la popolazione incominciava a gustare il frutto della sua faticosa opera, del suo ideale perseguito con tanta forza di volontà e sentiva tutte le dolcezze della religione cristiana vissuta all’ombra della chiesa. Nel 1905 i capi famiglia d’accordo, mandarono un umile petizione al Vescovo diocesano per avere il sacerdote stabile. La domanda fu accolta e Don Baldassarre Girardi, sacerdote novello pieno di vita e di esuberante zelo, venne, primo curato, a iniziare quella vita spirituale e cristiana che si mantenne sempre viva e forte, anche nei momenti più turbolenti dell’epoca. Il novello curato accolto con entusiasmo ed eccezionale affetto, trovò un terreno fertilissimo in questa terra In cinese per cui tutte le sue iniziative furono tutte eseguite prontamente, venne fatto l’intonaco della Chiesa; si costruì la cappella di Santa Barbara e questo per iniziativa e volontà degli operai che a Incino allora erano molti; vennero provvedute due statue: quella della B.V. della Salute, è quella della Vergine martire Santa Barbara; il campanile che era progredito contemporaneamente ai lavori della Chiesa, ultimato quindi, tre campane buone, squillanti, armoniose portarono una nota di vita a quelli di Incino che piantato rudemente su quel crostone-promontorio sembra vigilare tutta la vallata-gola di Rocca-Arsiè.

Ultimo lavoro compiuto dallo zelante Don Baldassarre fu la canonica. Un palazzo vero e proprio, e se consideriamo dove è costruito, un piccolo castello, tanto è suggestiva la sua posizione, peccato che sia troppo scostato dalla Chiesa, ragione per cui più tardi sarà fatto tu una nuova canonica. Al buon zelante Don Baldassarre che aveva con pietà e il cielo seminato profondamente e efficacemente nel fertilissimo terreno spirituale di Incino, successe Don Luigi Zotti, sacerdote novello, animato da uno spirito di zelo e da una bontà che, accoppiata a una giovialità goliardica, lo faceva tanto a tanto caro, soprattutto ai giovani e agli uomini.

Fu questo un periodo, sotto un certo aspetto aureo per la Chiesa di Incino la quale incominciava a divenire per le funzioni che si compievano, un piccolo Duomo.

Allora Incino aveva i suoi due chierici: Don Modesto Zancanaro, studente di teologia; Don Siro Nardino, studente di liceo; tutti e due pieni di entusiasmo per la loro chiesa che la consideravano come una piccola cattedrale. Quanto ritornavano per le vacanze, la loro opera era indifessa, costante, paziente per aiutare il buon Don Luigi nell’insegnamento della dottrina cristiana, allora, come sempre assai fiorente; e nell’insegnare il canto ai piccoli.

Incino, nel 1909 aveva i suoi pueri corales; i suoi piccoli cantori che, per primi in quei paesi,e tempi, eseguivano, con ammirazione dei circonvicini, la Messa e i Vespri in gregoriano.

Periodo bello quello per Incino che vedeva la sua chiesetta continuamente abbellita per nuovi lavori e provviste. L’intonaco fine, con decorazione semplice, a tutta la Chiesa, fonte battesimale, confessionali, paramenti, arredi e vasi sacri; statue di Santa libera-di Sant’Antonio-Sant’Agnese. Le bandiere delle associazioni e confraternite; ( vi erano tutte e tutte bene affiatate e organizzate). La curazia era in pieno entusiasmo di fede e di pietà cristiana. Ricordo che allora non si faceva funzione, per quanto minima, alla quale non assistesse, si può dire tutta la popolazione. D’inverno allorché ritornavano gli emigranti, era cosa commovente vederli felici nella loro cara Chiesa, ai piedi di Gesù. Ricevevano la Santa Comunione, frequentavano le funzioni e quanto si compiacevano di sentire la parola della fede detta con semplicità e precisione dal loro curato, il caro Don Luigi, il quale non disdegnava, uscito di Chiesa di passare un’ora allegra e beata con i suoi buoni giovani e uomini.

Quanto bene non s’è fatto allora! Quante sante comunioni, quante preghiere, quanti sacrifici, quanto denaro uscito da quei poveri operai di Incino che non hanno altro che una umile casetta e per il rimanente devono emigrare lontano, lontano per sostenere la loro famiglia, e tutto questo per la gloria di Dio!

E quale sarà la ricompensa del Signore per un popolo sì povero, eppure così munifico per il bene per le opere di Dio?

Periodo di prova

La guerra del 1915-1918 chiamata “guerra mondiale” doveva avere ripercussioni non comuni anche nel caro paesello di Incino. Per la sua posizione particolare, come tanti altri paesi posti ai piedi, alle falde del massiccio del Grappa, Incino fu cambiato quasi in una piccola fortezza militare. Dopo varie dolorose vicissitudini, che troppo lungo sarebbe enumerarle e descriverle, Incino rimase invaso. Il nemico austriaco, dopo Caporetto, invasi tutti i territori circonvicini, la sera dell’11 novembre 1917, entrava nel nostro paesello. Io allora mi trovavo, quale aiutante di Sanità a Roma.

Dal novembre 1917 fino al 5 marzo in cui si diede dal comando militare il bando a questa povera gente, nessuno può descrivere i dolori, gli spaventi, le privazioni. La Chiesa ridotta a scuderia; tutti i quadri sacri e qualche altro arredo sacro, le campane, tutto distrutto, profanato; soltanto le statue portate in salvo nelle diverse case, e gli oggetti più preziosi nascosti. Quale desolazione! Tutto disperso, tutto minacciato; e i buoni Incinesi, soli, senza il loro caro sacerdote che avesse a consolare quei pochi vecchi e deboli donne e fanciulli rimasti sotto i più terribili e numerosi pericoli. Ma Iddio vegliava sopra il suo popolo fedele e buono, il quale non dimenticava di pregare, e se non gli era possibile entrare nella sua Chiesa sorta da una fede adamantina, irrorata del sangue di tanti sacrifici, la guardava ancora con la lacrima che unita alla preghiera saliva, saliva, saliva fino al trono dell’Altissimo.

E la mano di Dio si manifestò chiaramente perché, malgrado che una bomba, (e fu la prima di gas asfissiante tirata dai Grappa dagli Italiani), calasse nella mezzanotte del 20 novembre 1917 sulla casa ove assieme ai soldati stavano pregando con la loro mamma, tre innocenti figlioli, e scoppiando avesse a dare la morte ai soldati, lascino intatta quella famiglia orante in mezzo a 12 animali che cadevano oppure essi. Un altro fatto in cui è manifestata la speciale protezione di Dio per Incino, un forte ammasso di bombe di ogni calibro e genere, di preferenza asfissianti, era stato posto dal nemico proprio nella vigilanza delle case, (Casa Camel). Un obice italiano venuto dai Grappa colpì a pieno. Si sviluppò tosto un incendio e, dopo pochi minuti: uno scoppio, una detonazione tale da far crollare buona parte delle case; schegge di ogni dimensione gettati in aria e a ogni direzione; grida strazianti di morte, sangue, sangue e sopra il cielo annerito da un’immensa colonna di fumo levatasi dall’incendio e dallo scoppio. Quale momento terribile per Incino! Sopra quel cratere, in mezzo ai soldati feriti, morti, tanto inferno, con una desolazione senza nome, si guarda, si corre dagli Incinesi quasi impazziti, chi in cerca del figlioletto, chi del fratellino, chi della madre, del padre, del parente, e oh prodigio! Una sola vittima in mezzo a tanti soldati: il caro e buon Michele Zancanaro.

Periodo duro, durissimo quello del 1915-1918 ma Incino non perdette nulla della sua fede e confidenza in Dio; e se mancava il sacerdote, e se la Chiesa non più gli serviva, perché anch’essa ferita, devastata, pure anche nei dolori e nelle più dure privazioni, pensava ad un domani,quando venuta la pace, avrebbe ridonato al Signore con nuova generosità le opere distrutte.

Nuova ripresa

Nel dopoguerra Incino ebbe una nuova fisionomia. Sempre buono e fedele al Signore, rientrati gli Incinesi, trovarono tutto rovinato, sconvolto: case, chiesa, campi ecc. si iniziò il lavoro di sgombero, di ricostruzione, sicché nel periodo di un anno e pochi mesi quasi tutte le case erano sorte. E la Chiesa e il sacerdote? Anche per questo si pensò, anzi fu il primo pensiero degli Incinesi che in primo tempo aggiustarono un po’ alla meglio la Chiesa; si rimisero a posto le statue, furono provveduti a mezzo del chierico D.Siro, diversi paramenti e arredi sacri necessari, i pochi rimasti nell’anno di guerra erano quasi tutti rovinati, fuori uso.

Ed intanto si domandò al Vescovo un sacerdote, che venne. Don Giovanni Rizzolo, sacerdote semplice, buono, per la sua età, contava più di sessant’anni, non poté esplicare quell’azione dinamica necessaria allora, su cui però la buona volontà dei curaziali che, a mezzo di una cooperativa locale di lavoro, si interessò perché il genio militare avesse a rimettere la Chiesa. I lavori vennero fatti specialmente nel periodo in cui fu curato il nostro conterraneo Don Modesto Zancanaro. In questo periodo vennero anche iniziate le trattative per la costruzione della nuova canonica; costruzione effettuata specialmente per la liberalità del nostro Don Modesto il quale cedeva la sua casa paterna per tale scopo. Il lavoro fu eseguito nel tempo che fu curato Don Pietro Pertile; così pure vennero rifatte a spese del Ministero delle Terre Redente le tre campane (1928), inferiori alle vecchie per timbro, sonorità e materia, il peso (q.6,50) uguale. Da questo momento la curazia di Incino assume una nuova fisionomia, tutti i curati che si succedono portano un risveglio continuo nella vita spirituale, nell’attività veramente encomiabile per cui la Chiesa fu provvista di suppellettili sacre in quantità e qualità più che ordinaria.

Alla cappella di Santa Barbara se ne aggiunse una seconda dedicata al Sacro Cuore di Gesù e ciò per ricordare una piccola edicola, di data immemorabile, dedicata alla Madonna del Pedancino, situata dinanzi all’attuale casa di Zancanaro Giuseppe fu Michele. E finalmente un quarto altarino con una magnifica statua della Madonna del Pedancino, munifico regalo di Zancanaro Angelo Scarpèr. La decorazione ultima fatta da Don Augusto Borin, i stalli in noce del coro, eseguiti da Don Ernesto Zuccato, danno alla bella chiesa di Incino un aspetto delicato, signorile e raccolto, si dà renderla degna di un importante paese.

Ultimo e luminoso atto….

Ed era ben giusto che questo popolo che conta ora appena 250 abitanti, (prima della guerra del 1918 erano 500) fosse premiato e soddisfatto anche da un suo legittimo e santo desiderio. La curazia di Incino quantunque non fosse ancora dichiarata giuridicamente sussidiaria dalla parrocchia di Rocca, ha goduto sempre una certa indipendenza nella esplicazione dei suoi spirituali atti e ciò per difficoltà della lontananza dalla chiesa parrocchiale, indipendenza che si accentuò quasi in una forma giuridica quando nel 1929 con decreto Vescovile, veniva dichiarata curazia sussidiaria. Ma si sapeva ormai da tutti che era necessario, per tante ragioni, di giungere all’ultimo atto, quello che doveva definitivamente sistemarla anche giuridicamente. E il 21 luglio 1942 veniva il decreto ufficiale della curia episcopale con il quale la curazia di Incino era elevata a curazia autonoma. Un atto di squisita bontà del nostro Vescovo che nella sua eccezionale attività pastorale, ha voluto ricordare Incino con un’ attestato del suo amore e della sua ammirazione. Ricordiamolo e lo ricordino i nostri figli. E vada anche un ringraziamento a tutti Curati passati, e in particolare allo zelante curato Don Ernesto Zuccato per quell’intricata prestazione che svolse per arrivare a quello che si può chiamare il massimo e più meritato atto: la sistemazione economica della curazia, per cui oggi, possiamo salutare la curazia di Incino come una vera parrocchia.

La sorgente…

Chi legge queste poche memorie-ricordo, che io, perché testimone, poveramente mi sono permesso di riprodurre su questo numero unico nel giorno della solenne inaugurazione della nuova Curazia autonoma, si domanderà: dove hanno potuto gli Incinesi trarre tanti mezzi finanziari per compiere tutte queste opere che hanno del sorprendente?.

La fonte, la sorgente che ha alimentato quel popolo nelle opere di Dio fu unica: la fede. La sede semplice umile, forte e incrollabile come la roccia sopra cui staziona Incino, fu la ispiratrice dei più grandi sacrifici, e da questa inesauribile sorgente sono uscite delle somme vistose a tal punto da mettere meraviglia.

Sempre così in ogni luogo, in ogni tempo! Le opere che formano la meraviglia di tutti i secoli che lei contempla sono sempre frutto della fede e dell’amore di Dio.

A Voi, miei cari compaesani, vada l’encomio e la lode che gli viene dal mondo, ma più ancora da Dio che ha premiato molti dei nostri padri, e che certamente riserverà anche a voi le sue benedizioni nel tempo, il premio nell’eternità. Se voi conserverete la fede ed, operosa, la tramandarete ai vostri figli.

Benefattori

Benefattori insigni! Tutti Incinesi, perché tutti hanno dato quanto si può dare. Non possiamo però, senza far torto ad alcuno, tralasciare alcuni dei nostri cari paesani che furono la mente, la guida, il fermento di tutti Incinesi: ricordiamo perciò:

Nardino Francesco Menegai, progettista, l’architetto.Taceva sempre, lo ricordate? Sempre con la sua testa bassa, pensieroso, schivo da tutte le assemblee, e schiamazzi, intento solo, sembrava, a curare il suo Saccon: eppure, quante notti passate sulla carta per disegnare, per calcolare ecc..! Egli è stato tutto per Incino, e noi non lo dimenticheremo.

Nardino Antonio-Santo, capomastro, direttore dei lavori.

Ecco un’altra copia di Menegai, serio, serio ma più maestoso; si imponeva col suo fare senatoriale. Anche lui, poche parole, almeno così vedevamo noi, allora fanciulli, che ci accontevamo solo di non ricevere uno scapaccione, tanto eravamo lontani di pretendere da lui un complimento o parola. Eppure chi può misurare la portata della sua prestazione per la Chiesa?

Menegai e Toni Santo

ecco i due nomi che noi dobbiamo scolpire a caratteri d’oro nella storia del nostro paesello, e sotto questi due nomi scriviamo ancora molti e molti altri. Voglio anzi dire tutti i capi famiglia dell’epoca nostra gloriosa, che non nominiamo perché lo spazio non ce lo consente. Saranno però scritti nel nostro cuore, ricordati nelle nostre preghiere.

Avvenimenti importanti

La curazia di Incino ebbe due regolari visite pastorali: la prima nel 1930 fatta da Sua Eccellenza ill.ma e Rev.ma Mons. Elia Dalla Costa, ora arcivescovo cardinale di Firenze; l’altra nel 2 dicembre 1935 da S. Ecc. ill’ma e Rev.ma Monsignor dottor Carlo Agostini. Prima di queste due importanti visite, la curazia fu visitata dal Vescovo di Padova, Sua Ecc. mons. Pellizzo, ma di queste visite non rimane alcuna relazione, al contrario le due sopra accennate, lasciarono oltre la relazione che si conserva nell’archivio curaziale, una impronta a memoria non comune, specialmente l’ultima. Oltre le solennità ricordate nelle memorie, ricordi: l’inaugurazione e benedizione della Chiesa (1903). Prima festa della Madonna della Salute (1906), notiamo le feste decennali in onore della B.Verg. della Salute. La prima nel 1927, l’altra nel 1937. In queste solennità Incino ha dimostrato un entusiasmo di preparazione e festeggiamenti tali da emulare le grandi feste dei grossi centri. Nel 1911 Incino festeggiava il suo primo figlio sacerdote: Don Modesto Zancanaro, più tardi parroco di Codevigo e quivi morto all’età di anni 50. Fu veramente una prima gloria dell’umile paesello, uomo di pietà profonda, di cuore generoso e delicato, infaticabile missionario del Vangelo, ha veramente meritato per il bene compiuto nella parrocchia ove fu Pastore, e a noi suoi concittadini, ha lasciato i più cari ricordi di una gioventù tutta bontà, e di una vita sacerdotale tutta sacrificio.

Nel 1922 nuovamente il nostro paese salutava un secondo figlio sacerdote: Don Siro Nardino, parroco ora di Borgo San Zeno di Montagnana. Che il Signore lo conservi: ad multos annos perché semini abbondantemente nel suo ministero sacerdotale.

ai soldati e emigranti

Voi, o soldati, che state compiendo in quest’ora gloriosa e dura il vostro dovere per la diletta Patria, e Voi emigranti, separati per una necessità dalle care vostre famiglie e dal natio paesello, vivete in questo giorno luminoso uniti con noi. Vi pensiamo, vi ricordiamo con affetto, perché siete i nostri figli che non smentite, anche lontani e in mezzo ai pericoli, la nostra incrollabile fede.

Vostro compaesano: Don Siro Nardino

parroco di B.S. Zeno di Montagnana.

Elenco dei curati

1. Don Baldassarre Girardi 1904-1908

2. Don Luigi Zotti 1908-1915

3. Don Antonio Guerra 1915-1916

4. Don Giovanni Rizzolo 1918-1920

5. Don Modesto Zancanaro 1920 1923

6. Don Pietro Pertile 1923-1928

7 Don Federico Mazzocco con 1928-1930

8 Don Augusto Borin 1930-1932

9 Don Giuseppe Carraro 1932-1934

10. Don Angelo Scarpin 1934 1936

11 Don Angelo Rizzo 1936-1939

12 Don Ernesto Zuccato 1940-1942

13 Don Carlo Marini 1942

Programma della festa

della nuova curazia autonoma di Incino

1-2-3 dicembre, triduo solenne, al mattino e alla sera predica; al mattino-mezzogiorno e alla sera suono delle campane

4 dicembre prima messa-comunione generale 7.00.

seconda messa-letta-9.00.

terza messa solenne-cantata-11.00.

Nel pomeriggio-ore 2,30 vespri solenni con discorso del compaesano Rev. Don Siro Nardino- parroco di B. San Zeno.

Te Deum, benedizione eucaristica, ricevimento in canonica delle autorità del Comune.

————————————————————————-

1986 21 giugno: il capitello di Incino, lungo la strada che porta a Cismon, è tornato a risplendere con tutta la sua luminosità di linee e di colore, grazie alla encomiabile iniziativa di alcuni giovani in particolare di Tiziano e Stefania Zancanaro. Hanno lavorato con grande entusiasmo per alcuni sabati e domeniche di giugno a pulire, a stuccare e a ridipingere: e il capitello è come resuscitato fra l’ammirazione e il compiacimento di tutti. Sabato 21 giugno alle 16.00: solenne inaugurazione con la celebrazione della Messa, lettura della pagina della cronistoria parrocchiale che ricorda la costruzione del capitello e una simpatica poesia in dialetto locale opera sempre di Tiziano; la cerimonia si è conclusa con un gustoso rinfresco campestre, innaffiato da generoso e ottimo spumante. Ancora una volta un cordiale bravi a tutti coloro che hanno dato una mano, tra gli altri ricordiamo anche Carlo, Laura, Felix, per conservare un pezzo di storia e di fede di Incino.

Dalla cronistoria di Incino 1 maggio 1945

dal 27 aprile continua il passaggio dei tedeschi in ritirata: il cielo è triste, piovoso: dalle montagne di di Enego e del Grappa tutto uno sparare dei partigiani non però sui tedeschi, ma è sui campi, passano silenziosi in lunghissime colonne, in bicicletta, a piedi, la maggior parte sui camion, alcuni su carri, su moto. È “spettacolo” che fa pensare! Finalmente poi il 1 maggio, mentre gli Incinesi sono di ritorno da un funerale alla Rocca, ecco i primi Inglesi e Americani: quale festa per noi! È finita la guerra, almeno per noi da adesso in avanti. Essendo nella notte distrutto il ponte di Cismon, passano per il ponte di legno, attraversano la galleria che mena alla Rocca, salgono a Incino e discendono al Ponte per continuare per Primolano: che spettacolo tutti quei baldi, stanchi giovani inglesi e americani; gli aeroplani che volteggiano nell’aria, le infinite macchine………

Oggi si è felici. Finalmente poi il 9 maggio: la pace definitiva, generale: quale solenne che Te Deum abbiamo cantato!

E poi subito tutti all’opera per la costruzione del capitello votivo. La Madonna ci ha salvati, dobbiamo innalzarle un piccolo monumento, ricordo. Il capitello fu cominciato la domenica 13 maggio 1945 tutti contribuirono alla sua costruzione portando sabbia, sassi, lavorandovi come muratori e manovali. Poi quasi più nulla di nuovo, se non la notizia della morte di Zancanaro Mario, morto di tisi il 1 giugno 1944 in Germania; tutti sono ritornati fuorché Zancanaro Gildo…

Don Carlo Marini curato di Incino.

 

Questa la poesia composta da Tiziano Zancanaro

El capitèl de Incino

che bel, che bel

el nostro capitèl!

Sul tornante par Cismon

l’era stat abandonà

fra le frasche e na noghera

e ‘na bela sariesera.

Le veciote che la sera le pasava par de là

tra ‘na ciacola e ‘na orazion

le vardava despiaseste

e capitèl che se desfava.

E pensar che gh’era entro

Sant’Antoni, la Madona,

San Giusepe col Bambin

tra formiche, ragnatele

tre sariese e doi nosele.

Ma a qualcun ghe vegnest in mente

de far le robe seriamente,

e de laorar co tant amor

co malta, penei e color

par rinovar par el paesel

el nostro vecio capitèl.

Don Olivo el ne seguitava a racomandàr

de star atenti co le statue da spenelàr

perché le fasili da spotaciàr.

La domenega col bel temp

quei de soto dela saca,

che i pasava par tirarse su la fiaca,

tuti quanti i si fermava

a vardar el capitèl che si rinovava

e così, ala sera, le tose de sti ani,

le pol tornar a sentarse sui scalèr,

al’ombrìa dei fasolèr,

par dirse tra de lore

che bel che bel

el nostro capitel”!

——————————————–

 Devozione popolare a Incino                               

oltre alla Chiesa sono 14 le devozioni popolari presenti nel paese:

poco a sud dell’abitato intitolazione: Croce. Tecnica e materiale: struttura in cemento di grandi dimensioni. La grande croce,intonacata di bianco, visibile a molta distanza, a quattro braccia orizzontali, sul basamento reca impressa la scritta: annus redemptionis MCMXXXIII.  Anno di costruzione: 1933. Sorge su uno sperone del monte Incino, sopra il Drio el Col, in posizione a sud rispetto al centro dell’abitato. La croce fu eretta nel 20º centenario della morte di Gesù.Stato di conservazione: buono. Un analogo manufatto sorge a Rocca sopra il cimitero.

Al centro del paese sul muro della casa dei Matii, sopra la porta principale c’è un affresco raffigurante la Madonna del Rosario. Il pessimo stato di conservazione impedisce la lettura di qualsiasi scritta o data.

Fuori dal paese sulla strada per Cismon del Grappa: al numero tre: nicchia in cornice a forma di edicola. Soggetto: Sacro Cuore di Gesù. La nicchia arcuata, a base semicircolare e volta a catino, racchiude una statuetta del Sacro Cuore, protetta da un vetro con cornice di legno. Età: secolo 19º. La nicchia è praticata al primo piano della facciata di una casa privata. Stato di conservazione: buono.

Strada per Cismon del Grappa intitolazione: Madonna (devozione privata). Tipologia: affresco in nicchia della Madonna col bambino, pittura murale per l’immagine, pietrame intonacato, età:secolo 19º. Ubicata lungo la strada per Cismon sulla facciata di una casa in rovina. Stato di conservazione: pessimo.

Strada per Cismon del Grappa al primo tornante: sacello intitolato alla Madonna di Lourdes. Misure: 350 × 310 × 340 cm. È un sacello a pianta pentagonale, la facciata presenta tre vani: quello centrale funge da Porta ed è sbarrato da un cancello di legno; i due laterali separati da quello centrale da sottili pilastri e protetti da una leggera inferriata. All’interno sul muro di fondo si aprono tre nicchie, incorniciate di legno a base semicircolare in cui sono allogate tre statue: in mezzo la Madonna di Lourdes, a sinistra Sant’Antonio di Padova col Bambino, a destra San Giuseppe pure con Bambino. Si accede al sacello per 4 gradini. Vi è un altare sostenuto da due pilastri e una lastra di cemento sulla quale è segnata una croce. Note storiche: la ristrutturazione del sacello eseguita in ringraziamento per scampato pericolo bellico i cui lavori iniziarono nel 1945.

Strada per Cismon del Grappa all’inizio della Pala della Renga: quadro raffigurante Santo Stefano, posto da tempo immemorabile forse già all’apertura della strada come protezione dei passanti, dalla caduta di sassi, il quadro venne riappeso una decina d’anni fa a cura di un privato.

Strada Incino-Tanisoi, all’ultima casa in uscita dal paese era appeso un quadro raffigurante sant’Antonio, tale quadro fu sostituito nell’agosto del 1997 da una nicchia contenente una statua, pure raffigurante Sant’Antonio di Padova.

Contrada Tanisoi: affresco di cui non si conosce l’autore ma solo la data: 1817; una pittura murale raffigurante la Madonna di Loreto di grandi dimensioni l’affresco ormai illeggibile reca l’effigie della Madonna inclusa in una grande cornice dipinta a forma di clipeo, attorno fiori e foglie. L’affresco è inquadrato in un sottile finta cornice rettangolare età secolo 19º. Ubicazione: l’affresco dipinto all’estremità destra della facciata di una casa (al primo piano). Iscrizioni: 1917 giovani…E Battista  F.P.S.V. Forse s’intende: fece per suo voto. Stato di conservazione pessimo. Curiosità:un affresco quasi identico si trova nel comune di Lamon nella frazione di San Donato.

Contrada Tanisoi edicola intitolata a Sant’Antonio da Padova, l’edicola è innalzata su un alto basamento a forma di piccolo tempio. La statua di Sant’Antonio è di serie. Età anno 1961. Ubicazione: è appoggiato al muro di spalla del vecchio sentiero che dagli Incino portava ai Tanisoi, iscrizioni: sulla facciata è la scritta:P(er)G(razia)R(icevuta) F.Z. (Iniziali del nome e cognome dell’offerente). Stato di conservazione buono.

Contrada i Prai: edicola edificata nel 18770, intitolata a San Antonio di Padova. Pietrame intonacato per l’alzato, tegole per la copertura. Misure: centimetri 260 × 190 × 82. L’edicola a base rettangolare, protetta da un cancelletto di legno. L’affresco dipinto sul muro di fondo è scomparso ed è stato sostituito da un quadro di cornice con l’immagine a stampa di Sant’Antonio con il bambino e il giglio. Sulle pareti laterali esterne sono scavate due nicchie che probabilmente avevano un affresco sullo sfondo ma è tutto scomparso sotto una recente imbiancatura. Sulla cornice del quadro sono indicate le lettere R.C.A. forse iniziali del nome dell’offerente. Stato di conservazione: mediocre

Contrada i Prai: c’era una pittura murale raffigurante un santo giovinetto (San Vito?) Misura centimetri 110 × 80. Situata sull’estremità sinistra della facciata di una casa all’ora abbandonata, il dipinto fu completamente distrutto nella ristrutturazione del fabbricato.

Contrada Casere: sacello intitolato al sacro cuore di Maria. Muratura intonacata a malta-cemento, tetto in lamiera. Misure centimetri 325 × 240 × 240. È un sacello del tutto moderno a pianta rettangolare sostenuto posteriormente, da due pilastrini di cemento. Porta a vetri rettangolare, due finestre arcuate alle pareti laterali. All’interno l’altarino il legno sostiene un piedistallo in cui si erige la statua di Maria col cuore sul petto. Dal vertice del tetto scende sopra la porta una campanella. Età: è stato costruito negli anni 50, stato di conservazione: buono.

Contrada Casere: nicchia in grande cornice muraria avente per soggetto Maria Assunta, ora sacro cuore di Maria e Sant’Antonio di Padova. La nicchia di pietrame intonacato. Situata nel muro di spalla della strada che dalle Casere porta ai Prai, sullo sfondo era dipinto un affresco ora quasi scomparso: solo si distingue una testa di donna di profilo nella parte superiore. Sotto è stato appeso un quadro con cornice lignea con l’immagine cartacea del Sacro Cuore di Maria e di Sant’Antonio di Padova. Misure centimetri 200 × 80 × 60. Età: secolo 19º. Stato di conservazione: pessimo.

Strada Incino-Casere: in un tornante fu innalzato un crocifisso,impostato su un grande masso, legno per la croce, lamiera per la copertura e il fondo, il luogo prese il nome di Cristo. Molti anni fa causa il deterioramento del manufatto, fu completamente restaurato a cura di un privato e il crocefisso fu sostituito con materiali moderni.

Prima della costruzione della chiesa, il più antico,e probabilmente unico luogo di culto ad Incino, era un capitello dedicato alla Madonna del Pedancino,che aveva ai lati due statue: di San Rocco e di Sant’Antonio. Tale capitello, demolito per fare posto alla chiesa, sorgeva nel punto esatto ove ora sorge la nicchia del Sacro Cuore.

—————————————————————–

La Difesa del Popolo  17 novembre 2013

INCINO la chiesa compie 110 anni

ARRIVA IL VESCOVO C’è GRANDE FESTA

giovedì 21 novembre nel paese in comune di Arsiè, 17 abitanti, sarà grande festa. La Chiesa compie 110 anni e da Padova sale il vescovo, monsignor Antonio Mattiazzo, che si era recato qui l’ultima volta ben 21 anni fa. Ritinteggiata la Chiesa e risistemata la scalinata esterna.

Giovedì prossimo, 21 novembre, per Incino sarà un giorno memorabile. Un evento tra i più importanti nella storia del piccolo paese, in comune di Arsiè, l’ultimo baluardo bellunese prima di entrare in provincia di Vicenza, esattamente sopra la diga del Corlo. A rendere così speciale questa giornata sarà l’arrivo del Vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, per celebrare alle 15 una messa solenne per i 110 anni dalla costruzione della chiesa, a cui seguirà un rinfresco conviviale. “Incino con i suoi 17 abitanti è un minuscolo agglomerato, già citato nel 1488 nella relazione della visita pastorale del vescovo Barozzi, sottolinea Walter Zancanaro, abitanti del borgo e appassionato della sua storia-il paese ha conosciuto un grande sviluppo verso la fine dell’800, quando la popolazione superò abbondantemente le 500 unità. Fu allora che si decise a innalzare una chiesa per staccarsi dalla parrocchia di Rocca, lontana 4 km, collegata da una mulattiera al limite della praticabilità in estate e totalmente impraticabile d’inverno-così i lavori iniziarono il 21 novembre del 1896, con la benedizione della prima pietra da parte di un delegato del vescovo Callegari. “In quegli anni-riprende Zancanaro – il tasso migratorio era altissimo per il poco terreno coltivabile. Un gruppetto di muratori rimase in paese, a totale carico della collettività, per completare la chiesa. Finché il 21 novembre 1903, festa della Madonna della Salute, la chiesa era pronta e il parroco di Rocca con l’arciprete di Arsiè, benedisse e celebrò la prima messa. Due anni dopo arrivò anche un prete stabile e Incino divenne curazia” poi iniziò il declino e quando l’ultimo curato lascino il paese (1967) gli abitanti erano 138. Oggi che i residenti sono 17, si calcola che in un secolo Incino ha perso il 98 per 100 della popolazione. Ma i numeri non sono tutto, e l’intraprendenza di certo non manca a chi è rimasto. “In questi mesi ci siamo preparati all’evento di tinteggiando l’interno della chiesa e risistemando la scalinata di fronte grazie al contributo economico di tutti- racconta Tiziano Zancanaro, vicino di Walter- siamo molto orgogliosi del fatto che il Vescovo venga da noi, sarà un momento bellissimo che darà poi il via alla costruzione del nostro presepe tradizionale che ogni anno tanti di consensi raccoglie tra i visitatori. Anche il parroco moderatore dell’unità pastorale di Arsiè, Don Alberto Peron, sottolinea l’importanza di questa giornata “La possibilità di accogliere il Vescovo, nel giorno della Madonna della Salute, molto sentita nelle nostre zone, è di certo un privilegio e un riconoscimento nei confronti di un piccolo gruppo di persone che dimostrano grande vitalità e grande attaccamento anche ai luoghi della propria fede. A questo evento parteciperà tutta l’unità pastorale e infatti stiamo predisponendo servizi navetta tra i parcheggi  e i paesi circostanti e la chiesa di Incino”. Anche perché questa piccola comunità ha una particolarità molto invidiata: alla messa festiva, che viene celebrata solo la prima domenica del mese, si assiste alla moltiplicazione dei fedeli che sono sempre il doppio o il triplo degli abitanti. E per questa occasione, non è utopia pensare che i presenti saranno 10 volte tanto i residenti. Luca Bortoli

 

Corriere delle Alpi    22 novembre 2013

Incino si riaccende per la festa

celebrati i 110 anni della parrocchia, grande accoglienza per il vescovo Mattiazzo

“sono felice di essere qui, con voi. Dopo la visita pastorale ho sempre portato nel cuore questa frazione. Amo il vostro paesetto, mi incanta perché è un luogo appartato e genuino, pieno di gente simpatica. Venire da voi non mi è costato alcuna fatica”. Le parole che il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo ha pronunciato ieri pomeriggio a Incino, durante l’omelia per celebrare i 110 anni della fondazione della piccola parrocchia frazionale, hanno ridato dignità, a un borgo che sta conoscendo il degrado, lo spopolamento e il disinteresse istituzionale. Cent’anni fa sopra la diga de Corlo abitavano oltre 500 persone, oggi resistono in 17, circondati da case vecchie e per lo più abbandonate, usate spesso e volentieri solo come residenze estive. Per questo ogni piccolo segnale di vitalismo e resistenza è accolto con tanto entusiasmo, per questo gli abitanti hanno voluto accogliere il vescovo patavino in pompa magna, addobbando il paesello con coccarde azzurre e bianche, rami di abete e nastrini color porpora. “Vi siete dati da fare”, sottolinea il vescovo dopo 21 anni di lontananza, per ricambiare il calore ricevuto da più di 150 fedeli, “mi avete accolto come fossi il Presidente della Repubblica” e per non cadere in discorsi retorici, comincia subito a ripercorrere a grandi linee la storia del borgo: “ nel 1986 è stata posata la prima pietra della chiesetta di Incino e il 21 novembre del 1903 è stata celebrata la prima messa. In più di un secolo la frazione è stata attraversata da alterne vicende: due guerre mondiali, la fame, l’emigrazione, le carestie. Voi siete persone forti, temprate, ed è anche per questo che ho deciso di ritornare. Questa chiesa, dove sono stati celebrati battesimi, funerale, e anche qualche matrimonio, è sopravvissuta grazie alla cura e alla fede della vostra gente. Voglio ricordare i vostri cari che hanno edificato la casa di Dio con tanto la passione e amore”. L’omelia prosegue e Mattiazzo prende confidenza, abbandona i formalismi e comincia parlare in dialetto, allargando la prospettiva per parlare della festività della Madonna della Salute: “al giorno d’oggi è difficile adottare uno stile di vita sano. Per questo vi invito al digiuno, che non si fa solo a tavola, ma è anche una rinunzia alle forme ma l’arte del vivere quotidiano, come la televisione. Guarda caso le malattie psichiche sono in aumento, e nonostante i progressi della scienza gli ospedali si riempiono, invece che svuotarsi. Mancano le buone relazioni familiari”. All’esterno della chiesa il gestore dell’agriturismo Al Ciod ha atteso i fedeli con un gustoso buffet.  Francesca Valente

 

Visite dei Vescovi di Padova ad Incino

 

Anno                        vescovo                       occasione

1920                     Luigi Pellizzo                  visita past.

1930                     Elia Dalla Costa              visita past.

1943                     Carlo Agostini                visita past.

1956                    Girolamo Bortignon       visita past.

1959                    Girolamo Bortignon       benedizione cimitero

1963                    Girolamo Bortignon        visita past.

1974                    Girolamo Bortignon        visita past.

1987                    Filippo Franceschi          visita past.

1992                    Antonio Mattiazzo          visita past.

2013                    Antonio Mattiazzo          110° anniv. chiesa

2019                       Claudio Cipolla                      visita past.

2019                       Antonio Mattiazzo                 celebrazione

——————————————————————–

elenco dei soldati caduti nel primo conflitto mondiale portanti il cognome Zancanaro

Sebastiano di Antonio (Meneghet) soldato del 5°reggimento Genio, nato ad Arsiè il 5 novembre 1898, morto il 3 novembre1918 a Milano per malattia.

Angelo di Domenico soldato del 7° reggimento Alpini nato ad Arsiè,il 2 agosto 1897, morto il 14 dicembre , sul monte Grappa, per ferite riportate in combattimento.

Angelo di Giovanni, soldato dell’8° reggimento Alpini ,nato ad Arsiè il 26 agosto 1894, morto il 18 luglio 1916 inVal Dogna, per ferite riportate in combattimento.

Costantino di Felice soldato del 7° reggimento Bersaglieri, nato ad Arsiè il 27 aprile 1885, morto il 20 dicembre 1918 a Brescia per malattia.

Giuseppe di Felice sergente del 7° reggimento Alpini, nato ad Arsiè il 24 gennaio 1891 morto  sul monte Cauriol il 5 giugno 1917, per ferite riportate il combattimento. Medaglia d’argento al valor militare.

Lorenzo di Felice soldato del 1° reggimento Genio, nato ad Arsiè il 5 giugno 1879, morto il 1 gennaio 1917 in ospedaletto da campo num. 73 per malattia.

Luigi di Giacomo caporale del 7° reggimento Alpini, nato ad Arsiè il 29 maggio 1896, morto il 28 maggio 1918, a Firenze causa malattia.

Mansueto di Giovanni Battista (Prai) soldato del 7° reggimento Alpini, nato ad Arsiè il 5 dicembre 1897, morto il 3 maggio 1918 in prigionia causa malattia.

Giovanni Battista di Giovanni soldato del 276° reggimento Fanteria, nato ad Arsiè il 16 luglio 1877,morto l’8 gennaio 1918 in prigionia causa malattia.

Giovanni di Florindo soldato del 2° reggimento Granatieri nato ad Arsiè il 19 marzo 1895, disperso il 3 giugno 1916 in combattimento sull’altipiano di Asiago.

questi invece sono i Zancanaro caduti ma non residenti in comune di Arsiè

Michele di Domenico sottotenente del 27° reggimento Fanteria nato a Tursi(Potenza) il 25 settembre1896, morto a Lucinico per le ferite riportate in combattimento.  Medaglia d’argento al valore militare.

Carlo Antonio di Luigi caporal maggiore del 4° reggimento artiglieria da fortezza, nato a Mestre il 3 febbraio 1884, morto il 16 aprile 1918 sul monte Grappa per le ferite riportate in combattimento.

Pasquale di Antonio soldato dell’87° compagnia presidiaria, nato a Vigonza il 4 aprile 1885,morto il 18 novembre 1918 nell’ospedale da campo num. 077 per malattia.

Silvio di Giovanni Battista caporale del 1° reggimento artiglieri di fortezza, nato a Vigonza il 28 ottobre 1893, morto il 5 novembre 1918 a Este per malattia.

Angelo di Giovanni soldato della 205 compagnia bombardieri, nato a Vigonza il 18 febbraio 1885 , morto il 26 gennaio 1918 in prigionia per malattia.

Alessandro di Gioacchino soldato del 64 reggimento Fanteria, nato il 18 maggio 1885 a Legnago, morto il 2 novembre 1915 nella 20° sezione di sanità per le ferite riportate in combattimento.

altro caduto sicuramente di Incino è.

Giuseppe Nardino di Antonio soldato del 20° reggimento fanteria, nato ad Arsiè il 9 agosto 1895, morto in combattimento sul monte San Michele

——————————————————————————————

1906 14 febbraio: 1°matrimonio nella chiesa di Incino

Emesso dallo sposo il giuramento suppletario e ottenuto il mandato di stato libero dalla rev. Curia di Padova, eseguito tre canoniche pubblicazioni nei 3 giorni festivi: 7-14-21 gennaio, allora di Messa, non essendovi scoperto alcun impedimento, ricevuta per mutua interrogazione il mutuo consenso per verbo dei presenti, il rev. Don Baldassarre Girardi, con licenza del rev. parroco di Rocca, don Luigi Moccellin, oggi 14 febbraio nell’oratorio di Incin, benedice il matrimonio di:

Zancanaro Giuseppe di Angelo e di Dal Molin Pasqua, nato in questa parrocchia il 14-5- 1880 e qui sempre domiciliato ad eccezione di qualche tempo passato all’estero o militare con:

Zancanaro Valentina di Giovanni e di Zancanaro Maria, nata in questa parrocchia il 14-2-1888 e qui sempre domiciliata. Furono testi……. Nella santa messa furono impartite le benedizioni nuziali secondo il rito della Chiesa. don Sebastiano Fabbian economo spirituale.

un secondo matrimonio merita di essere riportato e fu celebrato sempre ad Incin il 6 febbraio 1907

emesso dallo sposo il giuramento suppletorio e ottenuto il mandato di libertà dalla rev. Curia Capitolare, premesse le tre canoniche pubblicazioni nei giorni festivi 6-13-20 gennaio, non essendo apparso alcun impedimento canonico, il rev. don Girardi Baldassarre, per delega del sottoscritto, ricevuta per mutua interrogazione il mutuo consenso, congiunse oggi nell’oratorio di Incin in santo matrimonio:

Zancanaro Giuseppe di Giacomo e Zancanaro Giacoma, nato in questa parrocchia li 16 agosto 1881 e qui sempre domiciliato ad eccezione del tempo passato all’estero, cattolico, celibe, contadino, con

Zancanaro Teresa di Giuseppe e Borsa Angela, nata in questa parrocchia il 7 luglio1888 e qui sempre domiciliata, cattolica, nubile. Testimoni: Borsa Giovanni e Zancanaro Giovanni ( Pataco). Nella S. Messa furono impartite le benedizioni nuziali secondo il rito di Santa Madre Chiesa.

NB dopo celebrato il matrimonio si venne a sapere che i due erano consanguinei in 4° grado e furono obbligati a separarsi. Fu chiesta immediata dispensa dall’impedimento canonico alla S. Sede e ottenutala  il 2 marzo con proscritto della Santa Penitenzieria , fu rinnovato il matrimonio il giorno 30 marzo 1907.        Don Sebastiano Fabbian economo spirituale di Rocca.

La Teresa è ancora ricordata come Jeja, mentre Giuseppe era fratello di Jaco Bel.

1680  Antonio Zancanaro di Giacomo d’Anzin rimane ucciso per caduta di “borre” tra Corlo e Rocca, non potè ricevere l’assoluzione sotto condizione, ma a tempi debiti s’accostava ai Sacramenti e viveva da bon cristian.

1774 il 21 novembre Smaniotto Antonio del Corlo di Arsiè, di anni 40 circa, muore precipitato dalla strada che da Ansìn porta al Ponte di Cismon.

1872 Borsa Angelo fu Antonio, detto Bano, di anni 51, di Incin di Arsiè, Belluno, illeterato, sposato, incensurato, accusato di contravvenzione dell’articolo 27 della legge sulle Privative, essendo stato trovato in possesso il 18 novembre 1871 in Valgadena di Valstagna di kg. 2 di tabacco in polvere, con sentenza del 23 ottobre viene condannatoa una multa di lire 51 e altre 40 lire di proporzionale.

1923 dal bollettino mensile di Cismon: Zancanaro Maria di Giovanni dai Prati di Incino l’anno scorso ebbe una gravissima malattia, il tifo, che la ridusse in fin di vita. Ricevette gli estremi Sacramenti e da momento a momento e da ora in ora si attendeva la morte. Per la gravità del male si votò a Ns. Signora del Pedancino ed ebbe presto la guarigione e il ripristino della salute. Ora sta bene e ne ringrazia la possente Regina. Cismon  12-4- 1923 f.to Zancanaro Maria.

intercessioni di devoti di Incino

:Grando Caterina e Zancanaro Giulia di Incino raccomandano le loro famiglie e fanno un’offerta per l’incoronazione.

Zancanaro Elvira, ammalata, domanda la grazia della salute per poter assistere almeno all’incoronazione.

Offerte dei fedeli di Incino durante l’anno 1923:

Zancanaro Valentina: tre orecchini,

Zancanaro Angela di Valentino due orecchini,

Brandalise Emilia due orecchini,

Z.B. due orecchini,

Zancanaro Adilio £ 5 in argento,

Nardino Maria di Pietro: orologio con catena di argento,

Zancanaro Giulia due orecchini,

Nardino Giovanna due orecchini più anello,

Strapazzon Giovanna anello,

persona devota delle Casere anello,

Bof Anna anello,

Zancanaro Giacomo e Gino £10,

Zancanaro Elvira di Giacomo £15

Zancanaro Maria £10,

G.b. £20,

Grando Giuseppina £ 50,

persona devota £50,

Zancanaro Beniamino Ciò £20,

Zancanaro Maria Ruma £10,

Zancanaro Giovanni Arcangelin £50,

Figlie di Maria di Incino £ 60,

Nardino Giuseppina £10.

——————————————————————-

PER CONTATTARE L’AUTORE: ZANCANARO.WALTER@YAHOO.IT